Autobiografia fantastica
Born 1975 (unknown date) – Died 2016
L’anno esatto della nascita di F.I. non è certo, si parla del 1975 ma non si sa la data esatta.
Anche il luogo è misterioso; lui stesso rispondeva sempre : “Là da qualche parte nel mondo”.
La sua infanzia trascorre senza particolari sussulti, un bambino come tanti altri, fino al 1985, quando misteriosamente sparì per tre giorni.
Dopo ricerche disperate, fu ritrovato grazie ad una segnalazione anonima, al 57 di Great
Jones Street (NY), nello studio di Jean-Michel Basquiat, mentre pasticciava qua e là in compagnia dell’artista. Questa esperienza ebbe una grande influenza su di lui negli anni a venire. Fu allora che iniziò a disegnare in maniera ossessiva facce deformate. Le disegnava ovunque: sui muri di casa, sui quaderni di scuola, sui banchi, sugli autobus etc… Preoccupati da questa ossessione i genitori, dopo alcuni consulti medici, decisero di mandarlo in un Istituto d’Arte per “Outsider”. Qui F.I. potè dare libero sfogo alla sua “bestia” interiore, dipingendo su qualsiasi supporto trovasse a portata di mano. Si contano migliaia di lavori in questo periodo così produttivo.
Intanto le facce si deformavano sempre più e le scelte dei colori diventavano sempre più improbabili. F.I. stava nascendo…
Non ci sono avvenimenti degni di nota, fino circa al compimento dei 20 anni, quando insoddisfatto di non riuscire ad inserirsi nella società civile, per placare la sua
anima inquieta, abbandona tutto e intraprende un viaggio intorno al mondo che lo porterà
a toccare i luoghi più remoti del pianeta.
Di questo periodo abbiamo poche notizie, più volte fu dato per disperso o peggio per morto, salvo poi riapparire in qualche punto del pianeta vivo e vegeto. Questo continuo vagabondare gli fece avere più volte problemi con la legge, non si contano le segnalazione e gli arresti per vandalismo o oltraggio.
Tappa importante per la formazione di F.I. fu Haiti, dove venne a contatto con il Voodoo.
Introdotto in questa religione sincretica affiancò spesso gli Oungan (sacerdoti) in riti di vario tipo cercando di capirne il significato ancestrale. Elementi di questa esperienza sono spesso presenti nei suoi dipinti sotto forma di simboli o scritte.
Tornato nella sua terra natia ormai trentacinquenne, mentre si trovava in una lavanderia a
gettoni e rifletteva in senso lato sulla vita, alla centrifuga si rese conto di aver perso se stesso o forse di non aver mai capito chi fosse questo famoso se stesso. La leggenda narra che fu in quel momento che una gobba donna anziana, apparsa dal nulla, gli disse: “Ragazzo la spiegazione è nel deserto” (per poi sparire). Sull’episodio si sono sprecati fiumi di parole. La tesi più accreditata è quella che il Diavolo invocato da F.I., gli sia apparso sotto mentite spoglie e abbia concluso con lui il famoso patto, rivelando in cambio della sua anima, la strada da seguire. Illuminato da questo incontro partì alla volta di quello che nel suo immaginario doveva essere il “posto” giusto: il deserto del Mojave, tra California e Messico. Qui, ispirato dal paesaggio tanto sognato, e (come successivamente ammise) aiutato dallo spirito di Frida Kahlo, inizia un’intensa produzione artistica. Affascinato dalle culture tribali del luogo stringe legami con sciamani, vagabondi come lui in quella terra di confine.
F.I. comincia così un lungo periodo fatto di peyote, tequila e riti sciamanici sempre accompagnato da tre fedeli “Mariachi”. Senza fissa dimora, il gruppo vagabondeggia dormendo all’aperto in vecchi cimiteri indiani o in motel sgangherati in mezzo al deserto. In un’intervista lui stesso dichiarò di essersi ritrovato lì dove nessuno lo avrebbe mai cercato. Tutto questo durò circa cinque anni, quando una mattina di primavera il suo corpo fu trovato senza vita in un
cespuglio di jojoba. Le cause della morte sono secretate e risultano ancora oggi oscure. La bara bianca, mentre stava per essere rispedita ai suoi famigliari, fu trafugata dai tre Mariachi e da un suo caro amico sciamano, trasportata nel deserto e bruciata sotto uno splendido cielo stellato, come Fabrizio aveva richiesto.
Ancora oggi, chi si avventura lì, giura di averlo visto aggirarsi tra le piante di yucca; ma
questa è un’altra storia…
Fabrizio Inglese
L’opera di Fabrizio Inglese è contraddistinta da un sentimento di profonda inquietudine. Si tratta di una pittura gestuale caratterizzata da una manualità vibrante che non nasconde le sue ascendenze nella Street Art degli anni 80, Baquiat in particolare e nella pittura di Pablo Picasso.
Il maestro spagnolo del resto rappresenta la porta attraverso la quale sono passati
moltissimi importanti artisti del secolo appena trascorso, da Wilfredo Lam a Enrico Bay, solo per citarne due.
Vi é nella pittura di Fabrizio Inglese una ricerca del mostruoso e del grottesco,
quasi a voler rendere manifesto il desiderio di una corrispondenza tra interiorità ed esteriorità.Il mondo interiore dell’artista é infatti ricco di un’inquietudine che l’autore trasferisce sulla tela come fosse una terapia personale, manifestando tuttavia una ricerca di originalità degna di nota. I volti sbagliati, che gridano senza voce, ci si presentano con la loro drammaticità distaccata, in un tripudio di colori in cui il gesto prevale sulla forma. Le bocche, gli occhi sono contorti, smisurati, talvolta riportati a collage come se ogni volto fosse portatore di un’inesistente coerenza interiore.
Talvolta appaiono corpi che si inseriscono in un ambiente indefinito, talaltra i volti diventano teschi in un “memento mori” che pare essere un vero leit motiv per l’artista. Occhi e bocche prevalgono come elementi significativi nelle maschere rivelatrici dell’artista che racconta se stesso.
A cura di Raffaella Silbernagl